.......I pensieri trasformano la Terra.

lunedì 5 dicembre 2011

La crisi: un videogame per ricchi, tra disoccupazione e finanza.

Cerchiamo di partire da una considerazione semplice. La disoccupazione in Europa aumenta perché il mercato unico europeo prima e l’Euro poi non sono riusciti di per sé (come è naturale) a rendere più competitive le aziende europee nei confronti soprattutto di quelle asiatiche, oltre al dettaglio statistico della maggiore richiesta di lavoro da parte femminile, che anni addietro era molto inferiore.
Eppure la domanda da porsi non è “come accrescere la competitività”, ma “come poter ritornare a vivere con un solo stipendio in famiglia”?
Il più grosso problema in Italia, infatti, è stato ed è la drastica riduzione del potere di acquisto degli stipendi, in riferimento ad alcune merci e servizi addirittura dimezzato. È per questo che non abbiamo granché bisogno di prelievi statali alle pensioni per recuperare sul debito nazionale, ma tagli netti al costo della vita. In più, puntare l’attenzione di una politica economica principalmente sulla fluidità del mercato e sulla sollevazione dei vincoli a questo è un atteggiamento miope post liberista che non ci porta da nessuna parte, se non in braccia ai cinesi, già pronti a comprarci il debito come già accaduto agli Stati Uniti.
L’uscita dalla crisi europea può avvenire solo attraverso la costruzione di regole ferree ed eque che gestiscano le borse, gli spostamenti di capitali, le transazioni finanziarie, in modo da ostacolarle a tal punto da scoraggiarle quando non portano vantaggio alla collettività nostrana. Altrimenti la finanza ci strangolerà a favore di chi fa produzione in maniera scorretta, non equa, disecologica, cinica ed approssimativa come spesso accade in Asia. La qualità del mercato europeo va risaltata in tutti i suoi aspetti più benefici (ammesso che ve ne siano) per la popolazione: altrimenti, a chi interessa pagare i debiti finanziari contratti a causa dello spread &c.? A me cittadino, cosa me ne viene da queste spesso incomprensibili, opache, speculative manovre di spostamento di cifre digitali?
Al mercato serve un ritorno ad una realtà che si fondi sull’impresa che produce beni, non che basi la propria economia su virtuali giochi di numeri che gonfiano al solo scopo di arricchire qualche poca tasca, senza che quei danari corrispondano ad un qualcosa prodotto e poi venduto, poi usufruito. Anche perché così si arriverà al paradosso che quei pochi ricconi non avranno più merci vere da comprare: a quel punto compreranno ancora numeri, e poi di nuovo, e così via, rinchiudendosi definitivamente in questo loro videogame chiamato “Crisi”.

lunedì 28 novembre 2011

L'antipolitica miope

L’antipolitica oggi va tanto di moda, a ragion veduta. Eppure mi sembra che scaricare tutta la rabbia causata dalla crisi e dalle sue nefaste conseguenze sui soggetti politici sia esagerato e controproducente. Perché una grossa fetta di questo ragionevole nervosismo non lo spalmiamo un po’ anche sul pane? E perché non lo riversiamo sui giocattoli strappandoli di mano ai nostri figli? E perché non la mostriamo pubblicamente scagliando il nostro cellulare contro un muro? E perché, oltre a manifestarlo attraverso cortei contro la aziende che vivisezionano per esperimenti, non lo facciamo anche non comprando cosmetici testati su animali?
Insomma, le ditte talvolta mescolano alla farina strane sostanze come gesso e calce, usano plastica illegale, tossica e cancerogena per costruire i giocattoli che poi i nostri figli si ficcano pure in bocca, nascondono ed ostacolano studi che dimostrano o sospettano una correlazione tra tumori al cervello e leucemie giovanili e l’uso del cellulare, e noi stiamo a strapparci i capelli per i politici che prendono il vitalizio? Certo è sacrosanto, certo un Paese civile deve controllare i propri governanti e bacchettarli sulle mani quando serve (e serve sempre), certo la corruzione è un cancro che immobilizza e poi uccide uno Stato… ma occorre indirizzare le proprie attenzioni anche, e soprattutto, alle merci che acquistiamo. Il “potere di acquisto” di una famiglia non solo bisogna calcolarlo nella quantità di denaro che si è in grado di spendere, ma anche considerarlo come lo strumento con il quale scegliamo che economia finanziare: in un supermercato, in un negozio, in una boutique, occorre esercitare il nostro potere di acquisto nello scegliere il prodotto, secondo dei parametri che non siano solo quelli della moda o del gusto personale, ma anche, per esempio,  l’eticità del produttore e la garanzia che riesce a darci sui materiali che usa. Dare i nostri soldi a chi ha pochi scrupoli a sfruttare la manodopera, a usare fornitori inaffidabili e incontrollati ma economici, a fare affari con mafie di vario tipo, è irresponsabile e non più sostenibile.
Bisogna impegnarsi di più, per esempio, nella lettura degli ingredienti dei prodotti alimentari che acquistiamo, domandarsi e cercare le risposte (magari su internet) di cosa significano alcune di quelle parole che risultano certamente ai più incomprensibili, impegnarsi di più nel pretendere il meglio per noi stessi e per i nostri figli.
Ma non c’è nessuno che mai lo farà per noi: ci dobbiamo pensare da soli, usando quel potere, più grande di qualsiasi Stato o corporazione lucrativa, che è la nostra libertà di scelta.

lunedì 14 novembre 2011

Stati Uniti d’Europa: se non ora, quando?

Ci sono dei momenti in cui, come dice De Gregori in una sua famosa canzone “per salvarti la vita, devi rischiare di più”. Penso proprio alla situazione italiana e a quella europea più in generale: la stretta finanziaria fa sentire sempre più male, aumentando vertiginosamente i guadagni lucrativi di pochi abili cuculi senza scrupoli, pirati legittimati da regole sospinte a creazione e mantenimento dalla finanza stessa (d’altronde, come spiegare sennò, per esempio, tutti quei collaboratori Goldman Sachs finiti nelle alte sfere – se non altissime - dei governi di mezzo mondo?). In una situazione in cui larghe mani ci stanno strozzando e togliendo via via l’aria, come salvarsi?
L’Europa, nata dai sogni di qualche statista illuminato, è finita per fare un sonoro tonfo nel reale, cascando anni or sono nelle fauci della finanza e delle banche. Ed ecco nascere l’euro, dopo qualche tempo di gestazione in menti molto poco disinteressate: già il parto fu travagliato e doloroso (per noi). Ora, non era detto che un figlio nato con tali complicazioni si portasse dietro crescendo alcune funeste dirette conseguenze: e invece siamo riusciti a crescerlo nel solco della continuità natia. O meglio, c’è riuscito chi si è impegnato tanto perché ciò accadesse. Ma, tra i vari effetti collaterali dannosi, ce n’è stato almeno uno positivo non previsto. L’euro, infatti, ha aiutato gli europei a sentirsi tali. Confrontare prezzi italiani con quelli francesi, per esempio, ci ha reso i nostri cugini d’oltralpe più vicini (può apparire un’affermazione sarcastica, ma non lo è…), ci ha fatto sentire, noi europei, un po’ di più sulla stessa barca e, paradossalmente, di più proprio adesso in cui la moneta unica sta rantolando convulsamente. Mettici la nascita dei voli low-cost ed ecco che l’Europa si è fatta all’improvviso più vicina, cosa nostra, casa nostra. Ma basta tutto ciò a fare l’Europa? Certamente no. E allora cosa fare, specie in un momento in cui mai si è palesata di più l’impotenza del Parlamento Europeo di fronte allo strapotere della BCE e di chi ci sta dietro? La risposta sta, appunto, nel “rischiare di più”: fare gli Stati Uniti d’Europa. Passato l’urto violento dell’iperliberismo e pagatone q.b. il prezzo, giusto per placarlo un poco, è proprio adesso l’ora di mettersi intorno ad un tavolo e rifabbricare una Costituzione Europea che coinvolga, in un inevitabile non breve processo, il più possibile direttamente le persone, cioè gli europei tutti, attraverso pratiche di democrazia partecipata, tra l’altro già ampiamente sperimentate in diverse parti del mondo.
Ma non sarà certo la BCE o il Fondo Monetario Europeo, né Sarkozy o la Merkel ad iniziare questo processo: bisogna farlo noi, occorre trasformare questa crisi economica in una “primavera europea” che permetta quello scatto in avanti che spiazzi i volti contriti dei cravattari abituati al potere, che scompigli le carte di chi ha fatto ancora una volta progetti di lucro sulla nostra pelle, che ci porti al fiorire di una nuova economia mondiale, basata su una più equa ridistribuzione della ricchezza, di cui solo l’Europa ha i mezzi e la cognizione di causa per fare da esempio.
Europei di tutti il mondo, uniamoci: se non ora, quando?

mercoledì 9 novembre 2011

La crisi? Ascoltiamola.

L’Italia è malata e la malattia si chiama “crisi economica”. Ma cosa è una malattia? Può essere vista come uno stato di salute che momentaneamente manca. Oppure, la malattia può essere un sintomo di guarigione, un campanello d’allarme che suona per dirci che qualcosa non va nel nostro modo di vivere, nel nostro sistema immunitario, nel nostro rapporto tra corpo e mente.
La malattia “crisi economica”, dunque, può essere un sintomo che il nostro sistema non va, che non è adeguato al nostro stato di salute, che intacca il rapporto tra Stato e cittadini sempre più in profondità, che divarica il rapporto tra ricchi e poveri, aumentando il numero di quest’ultimi.
Allora come si supera la crisi? Ascoltandola.
Ignorare la gran voce di una malattia, ingurgitando pasticche che la facciano semplicemente stare zitta, non risolve il problema che l’ha generata, ma lenisce solamente i suoi sintomi. I tagli “lacrime e sangue” già adoperati e quelli futuri, non sono altro che pillole: il problema strutturale di questo modello economico rimane ed è piuttosto evidente.
Riuscire a trasformare uno stato di salute comatoso in un sintomo di guarigione significa un balzo in avanti verso una prospettiva necessariamente ed urgentemente vicina che non comprenda più i giochi finanziari come li abbiamo conosciuti fino ad oggi, che non comprenda più lo strapotere delle agenzie di rating, che non comprenda più le corporation di vario tipo come organizzazioni che dettano la politica mondiale, che non comprenda più i paradisi fiscali.
Come fare? L’Europa politica e monetaria dovrebbe intanto interrogarsi su questo orizzonte e non altro, dovrebbe spendere i propri migliori uomini nel disegnare uno scenario economico che sfrutti la crisi, che faccia tesoro degli errori del turbocapitalismo da cui l’Europa è appena malamente passata, e detti le linee guida alle nazioni europee per una economia più legata ai beni materiali, al lavoro come risorsa, alle famiglie, piuttosto che alle speculazioni finanziarie.
Altrimenti siamo destinati a rimanere legati a dei “medicinali” atti alla bisogna non nostra, ma di mostri corporativi “farmaceutici” senza scrupoli.

mercoledì 19 ottobre 2011

Secolarizzazione

La diluizione della coscienza in fuoriuscita dagli estremi della concezione di infinito. Quindi, la mente crea il concetto di divinità o Dio per dare argini. Paradossalmente, la più importante opera di secolarizzazione mai realizzata dall'Uomo.

giovedì 21 luglio 2011

Genova 21 Luglio 2001

Io ero a Genova, il giorno dopo l'uccisione di Carlo Giuliani.
Mi ricordo che sul pullman da Pisa pareva di essere in una gita di scuola, nonostante il timore di non sapere cosa avremmo trovato lì.
Mi ricordo che andavamo in corteo e c’erano tante risate e tanto caldo: gli abitanti genovesi, nonostante il caos di quei giorni, ci spruzzavano acqua dai terrazzi per rinfrescarci. Qualche prete ci salutava complice da dietro il portone della propria chiesa.
Mi ricordo che si mangiucchiava qualche panino improvvisato, comprato nell’unico negozio aperto preso d’assalto molto ordinatamente: quel gestore ci avrà benedetto non so per quanti anni.
Poi, d’improvviso, ci troviamo davanti una schiera di poliziotti; ci giriamo e c’erano anche dietro. Poi apparve un elicottero che volava a non più di 20 metri sopra le nostre teste, sparandoci addosso lacrimogeni dall’alto. Non avevamo alcuna via d’uscita, rischiavamo il massacro, quando cominciarono a manganellare le prime file: non capivamo perché. Poi abbiamo visto venire i black block che lanciavano pietre ed abbiamo capito con chi ce l’avevano: peccato che a sanguinare eravamo noi, con le braccia alzate per far capire chi dover beccare, senza riuscirci. Solo la mediazione di una rappresentante politica con le forze dell’ordine riuscì a creare un varco tra la polizia per farci defluire sotto gli sguardi minacciosi di quei visi contriti e protetti.
Con un mio amico ci defilammo in una strada traversa, ma non bastò. Ad un certo momento sentimmo da lontano grida e rumori in avvicinamento. Fu un attimo: riuscimmo a ripararci in una corte privata, prima che lo sciame dei black block arrivasse di corsa dietro di noi, inseguito dai poliziotti. Vedemmo una jeep incendiarsi, cassonetti divelti, vetrine infrante: che c’entrava questo con noi? Sbucammo fuori quando rimase per strada solo la polizia. Ingenuamente, ci sentimmo al sicuro e chiedemmo ad un poliziotto quale percorso si potesse fare per non incappare in incidenti e pericoli, per tornare alla piazza dove ci aspettava il pullman.
Ci squadrò: capì che eravamo del corteo, ma che eravamo innocui. Ci urlò di andarcene subito: lì per lì rimanemmo a bocca aperta, presi di contropiede da quella reazione inaspettata. Ce lo ripeté con più vigore, agitando il suo bastone nero. A quel punto capimmo e ce ne andammo speditamente.
Da sopra un terrazzo, un signore ci chiamò e ci invitò a salire. La sua aria dava fiducia ed avevamo un disperato bisogno di aiuto: dopo una breve occhiata fra noi, decidemmo di salire. Appena entrati, ci accolse sua moglie e suo figlio, con problemi celebro-motori. Davanti ad un salutare caffé (al mio amico era venuto nel frattempo un comprensibile mal di testa e gli portarono pure un'aspirina), il signore ci raccontò dei suoi trascorsi stalinisti e di come era Genova un tempo. Dichiarandoci spersi, si offrì di accompagnarci in auto fino al pullman. Accettammo col cuore in mano. Mille ringraziamenti, signore, fu proprio un angelo, lei e la sua famiglia. Ma forse lei preferirà un "grazie, compagno. Saluti fraterni".
Ritengo che non ci siano eroi di nessun tipo a Genova.
Solo una grande occasione mancata.

lunedì 13 giugno 2011

Hanno vinto gli italiani

No, cari partiti. No, cari segretari. No, caro governo. No, cari astensionisti.
Stavolta non ha vinto una parte politica o gli anti-berlusconisti: stavolta hanno vinto gli italiani.
Il 57% è andato a votare per scegliere sul proprio futuro, per esprimere la propria opinione su temi ben precisi e di primaria importanza come direzionare la politica ecologica di questo paese, la politica energetica, la politica della distribuzione delle risorse, la concezione della giustizia.
Soprattutto chi sta nei partiti di sinistra deve raccogliere questo messaggio forte e fare il mea culpa sulla rotta seguita in passato, che voleva proiettare il proprio popolo verso la modernità del liberismo.
Ma tutto lo scenario partitico dovrà fare i conti con un messaggio chiaro e forte arrivato da queste votazioni: noi siamo una cosa e voi un'altra. La fine del berlusconismo porta con sé anche un inizio di presa di coscienza del popolo italico di essere cosa diversa dai propri rappresentanti.
Come a dire: “ora basta, è finita la pacchia. Stavolta decidiamo noi, vi teniamo d’occhio”. O, per dirla col Vasco nazionale “Noi siamo ancora qua”.

martedì 7 giugno 2011

Il no ad "Annozero": un danno ai soldi pubblici.

Nella storia delle aziende pubbliche italiane ci sono state tante cattive gestioni del nostro denaro.
E tutt’oggi, nonostante le poche ma importanti dismissioni, continuano. Non ultima quella recente della Rai. Ora, io cittadino italiano che paga queste aziende e si aspetta che rendano qualcosa in termini di profitto e relativo guadagno da parte delle casse pubbliche, o che rendano qualcosa in termini di servizi, se mi si palesa uno spreco dei denari che io “investo” (senza però la possibilità di scegliere se farlo o meno), o una cattiva gestione dei miei interessi come cittadino, che faccio?
Non so voi, ma io m’incazzo e perciò protesto. E chiedo che vengano cambiati i manager che hanno avuto fino a quel momento le leve del potere di quell’azienda.
Nello specifico del caso Santoro che mi ha sospinto a questa riflessione, che modo di gestire il mio denaro è mai quello per cui il maggiore finanziatore delle casse pubbliche di Rai Due viene escluso dal palinsesto? E dovrei pure stare zitto? Eh, no, stavolta no, perdìo. Il governo opera dei tagli col machete in tutti i settori pubblici, azzoppando servizi in ogni dove in nome della riduzione agli sprechi: quando c’è chi, invece, ci porta guadagno, i dirigenti Rai lo fanno fuori?
Sono ovvissime le ragioni politiche di tale comportamento: ma il nostro silenzio di fronte a questo sarebbe un insulto a noi stessi, alla nostra intelligenza, alla nostra dignità. Non si può permettere di farci prendere in giro in questo modo sfacciato e tacere.
Per questo chiedo di mandare e-mail, commenti nei blog di personaggi istituzionali, messaggi su Facebook, fare dichiarazioni pubbliche di dissenso e, se questo non servisse a niente, boicottare Mediaset. “Mediaset?”, mi domanderete, “che c’entra Mediaset?”. Perché credo che boicottare la Rai servirebbe solo a fare il gioco di coloro che vogliono veder calare a picco gli ascolti della televisione di Stato. E poiché il maggior concorrente privato è in mano alla famiglia Berlusconi che ha orchestrato questa operazione anti-Annozero ai danni dello Stato, non vedo perché dovremmo boicottarci per conto nostro, quando abbiamo giusto a tiro di telecomando il responsabile di questo ennesimo scempio.
E poi (Staffelli e Ricci state in ascolto), la Lei un bel tapiro se lo meriterebbe proprio…

lunedì 30 maggio 2011

Le amministrative e l'italiano medio

Che cosa strana. E’ come quando ti rendi conto di esserti sobbarcato un peso, una responsabilità, solo quando te ne liberi. Hai un frizzante piacere alla nuca ed un senso di rilassatezza sulle spalle.
Ecco, queste elezioni amministrative le rappresenterei un po’ così, tra il somatico ed il politico, tra la fisicità, entrata in maniera dirompente sulla recente scena elettorale, ed un nuovo senso della legalità, vera protagonista di questa stagione.
Che sia questo lo schiaffo che segna il risveglio dal ventennio videocratico? Vuoi vedere che tutto questo attaccare la cultura ha cominciato a far attaccare l’italiano medio alla cultura?
Penso che tutto ciò sia il sintomo di una crescita di Popolo, spinta anche dai moti d’Africa, di recente sostenuta dalla Spagna, fertilizzata dai clandestini sui barconi, tenuta stretta dai festeggiamenti sul 150°, disciplinata da una voglia di efficienza e civiltà germanica sempre più pressante, specie al sud.
Gli italiani hanno una vocazione europea molto più dei governanti italiani e non, molto più dei grandi gruppi bancari che hanno creato la moneta unica: questa nuova primavera segna una svolta nell’approccio all’italianità, che mutua dai popoli europei un miglior senso civico e un più coeso senso di appartenenza, che ci faccia sentire cosa a se stante da chi ci governa.
Non culliamoci, però, troppo sugli allori: la strada è ancora lunga ed impervia.

sabato 21 maggio 2011

"Capra! Capra! Capra!"

«Capra! Capra! Capra!» urlò il Super Io dell’Auditel al povero Vittorio, pioniere incompreso della Cultura con la “C” maiuscola, anche lui travolto dalla valanga del berlusconismo videocratico scivolato giù, come un Vajont annunciato. La maschera del Silvio condottiero sbandierata in ogni sua piazzaforte giornalistica, la dice lunga sul muso lungo dei falso-destristi di questo moderno ventennio annacquato, muso che palesa il maldestro tentativo di coprire la verità con ceroni e fondotinta catodici. E la primavera che si sente in giro sta a significare che lo sprovveduto Popolo Italico se n’è accorto, a cominciare proprio laddove nessuno se lo aspettava (o in pochi): Milano e Napoli. I cosiddetti massimalisti hanno vinto la prima partita, dagli ex-rifondaroli, ai populisti dipietristi, ai grillini. E questa orgia di estremismo di sinistra (non me ne voglia il buon Beppe se lo apparento da questa parte) si è rinforzata e coesa proprio grazie ad un estremismo di destra che si è palesato sempre più, provando ad uscire dal cavallo di Troia del moderatismo in cui fino a poco tempo fa si nascondeva: la prima a sbarcare per la crociata è stata la Santanché, quasi un umano ariete da sfondamento.
E non sembra che il PD sia troppo deluso di aver perso le primarie a Milano e tracollato a Napoli. Pure Fassino a Torino pareva spaesato (ha ragione Crozza). Perché?
Tra le braci del popolo comunista che fu ai tempi di Enrico Berlinguer, si sta accendendo un fuoco che cova da anni: hanno tentato di buttarci acqua con pompe a idrogetto per vent’anni ma, evidentemente, non sono riusciti a spegnerle. E coloro che hanno fallito in questo, oggi sono ancora nelle dirigenze PD (Bersani escluso): ma sembra che da tutto ciò siano quasi sollevati, come se gli avessero tolto un peso.
La storia sta travolgendo, partendo dal Nord Africa, tutti gli equilibrismi di opportunità delle sedie al potere, la crisi sta ignudando il carnevale della politica, la gente si sta riappropriando di ciò che gli spetta.

giovedì 19 maggio 2011

Inerzia

Ogni umanità dovrebbe essere deputata alla ricerca del più alto profilo della propria esistenza: invece, siamo tutti piccoli ripiegati in noi stessi e con poche ali a disposizione, spesso di cera. La fascinazione della perfezione ci ferisce e ci mortifica, lasciandoci inchiodati davanti a tale illusione. E alla televisione la nostra vita passa, beata di se stessa e giustificata da una notorietà immaginata ed ignotamente pericolosa. Perciò scansiamo le scomodità, ci rendiamo ridicoli davanti ad una piantina che nasce (e non lo riconosciamo), davanti ai nostri figli che nascono. E a pochi anni hanno già imparato a schernirsi della nostra pochezza genitoriale, ad abituarsi a percorrere la vita senza di noi, a brancolare nell’incertezza con il placito sostegno di ebbrezze artificiali ingurgitate e vissute con drammatica facilità. Lo sciame umano passa su questa Terra senza lasciare un segno che valga l’esistenza, generando progenie per inerzia: ma la fisica ha le sue leggi ed un moto inerte non ha più energia propulsiva. È destinato alla fine, ad uno stop, forse per un nuovo inizio. Forse.

martedì 10 maggio 2011

Meno male che Silvio c'è (stato)

E non è una gufata. È solo un’analisi retrospettiva fatta in un immaginifico futuro prossimo, ma senza date certe. I titoli da fantascienza spesso riportano l’anno, tipo “2045 – fuga da Arcore” (o giù di lì), ma in questo caso non è proprio possibile indicare dov’è lo striscione di arrivo. E nemmeno quanta e quale gente sarà a tifare nella volata finale. In questo crogiolo di metafore a capicollo, il centro del ragionamento è sempre lui: il cavalier Silvio Berlusconi. Chissà perché quando sento queste tre parole in fila (non poche volte), mi appare sempre, e dico sempre, il quadro di Napoleone sul suo cavallo rampante, solo che al posto del volto dipinto dell’Imperatore esiliato, c’è la testa del Silvio, un po’ come quando si sbuca col capoccione dall’ovale ritagliato dal compensato pitturato a guisa di uno sceriffo o di un torero e c’è il fotografo pronto a immortalare una delle immagini di cui ognuno di noi vorrà disfarsi dopo un annetto, divorato dal rimorso e dalla vergogna di aver trovato questo giochino di una qualche innocenza, accompagnato dallo stucchevole pensiero “l’hanno fatto in tanti… ma su, facciamolo che tutto sommato è divertente!”.
Meno male che Silvio c’è stato, si diceva. Guardiamoci un po’ intorno, magari anche negli occhi, noi italianetti del dopo-berlusconia: “Ma guarda il tuo viso! Non ti riconosco più, Paolo!” dice una casalinga (quasi un’umana rara in via di estinzione) al suo maritino: stupita ed attonita, non riesce a riconoscerlo, tanto è cambiato il suo punto di vista. Non se l’aspettava, la Giulia, un così brusco risveglio, un così potente e ondivago giramento di capo, frastornata dalla mancanza di sostegno alle sue certezze, o meglio alle sue  abitudini. Perché si sa, noi italiani siamo tra i migliori sulla Terra ad abituarsi a tutto. Perfino i telegiornalisti faticano a ritrovare nerbo e verve davanti alle telecamere dei loro telegiornali, schiacciati dal grigiore di una telepolitica che non sa più che pesci pigliare per stimolare teleelettori ormai in attesa di un nuovo telemessia. È un Requiem, un finale da preti tipo “la messa è finita. Andate in pace”. Le chiacchere da bar vertono unicamente sul calcio, anch’esso un po’ azzoppato dalla dipartita del noto Presidente rossonero, disteso e nullafacente sulle spiagge di Santa Lucia, tra gli abbracci solari della President Bay e gli abbracci ghiaccini di mulatte prezzolate. E i rubicondi avvoltoi della sinistra ridono in panciolle come dopo una strafogata romagnola a base di tortellini e cinghiale in umido, asciugandosi le labbra unte con un tovagliolo di cencio a quadri bianco e rossi, ricamati col nome dell’osteria. I terzopolisti ingrigiano la loro serietà per renderla ancor più seria e, secondo loro, perciò autorevole, cercando di stare stretti e uniti, “mica come quelli della sinistra che dopo la cena andranno a tramare nella notte, affilando i coltelli del tradimento” (i centristi hanno sempre un po’ il pensare da Bibbia in testa, che ci vuoi fare).
I polverosi lupanari dei mafiosi hanno le ragnatele e i pizzinni si sono trasferiti da tempo nelle banche di tutto il paradiso fiscale della volta celeste, trasformati in buon denaro riciclato ed esentasse, imbiancato da cenere da risucchio nasale, rinfrescato da pale girate da vento inquinato di tangenti, e sommerso dagli scarti immondi della nostra società buttati con disprezzo in abusive cave a cielo aperto.
A gettar così uno sguardo nel futuro, non sembrerebbe che senza il cavaliere si stia tanto bene (“si stava meglio quando si stava peggio!”). Eppure, a ben guardare, ci sono delle belle sorprese.
Intanto Berlusconi ha sdoganato e reso evidente una rivoluzione sessuale che si è consumata e si consuma in questi anni, cheta e a bassa intensità, ma di portata epocale. Un po’ come il movimento femminista che è riuscito a tirar su piante e coglier frutti dopo la sessantottina semina proprio nei nostri tempi, così gli hippy di quarant’anni fa hanno sedimentato il loro ardore ideologico nell’intimità del costume italico senza che questo nemmeno se ne rendesse conto, intento com’era a respingere come stuzzicanti quelle proposte e a bollarle come opera del demonio, lasciando in realtà che la luciferina goduria entrasse sotto le lenzuola della gente perbene. Basta guardare la nuova generazione, questa progenie debosciata eppure così disincantata verso il binomio sesso-amore, come verso il binomio eterosessuale-omosessuale. Questi ragazzi fanno e dicono di fare, alla facciazza dei cinquantenni, magari loro padri, figli dei fiori pentiti. Ed il buon Silvio, avendo una instancabile sindrome da Peter Pan, si è trovato subito a suo agio in queste nuove tendenze (omosessualità a parte, s’intende. O forse quella è ancora repressa? Che a Santa Lucia ci siano anche trans sotto mentite spoglie, opportunamente strette al bacino per fugare ogni sospetto del, per forma mentis, sospettoso Putin, anche lui anziano ospite di quell’ospizio per ricchi?).
Ma le ragguardevoli positività post-berluschine non si fermano qui. La gente, se la intervisti per strada, è come stanca. Non gli parlar più del berlusconismo perché ti vomitano addosso: è proprio che le loro cellule non ce la fanno più a reggere, le loro menti sono ormai in burn-out da qualunque argomento sfiori anche solo di un soffio l’ex beneamato: la videocrazia, il chi-ha-più-danari-comanda, il partito fondato da Pubblitalia, la Padania, le minorenni, i PM comunisti e perciò eversivi, lui piduista e perciò un eroe che ha tentato di portare la vera libertà in Italia, così come il suo stalliere, le barzellette, le corna nella foto, i kapò ancora fra noi, “uno spettro si aggira per l’Europa”, eccetera eccetera.
Ed è così che gli italiani si ritrovano anche un po’ più maturi, anche un tantino più civili, hanno perfino ritrovato il gusto allo studio e la voglia di realizzarsi attraverso il lavoro, si mettono in coda come novelli tedeschi, portano ai Carabinieri un portafoglio smarrito, i Carabinieri non se lo intascano, fanno tutti con diligenza la raccolta differenziata con almeno cinque trespoli di spazzatura per abitazione, rifiutano l’aiuto di un parente per essere assunti in Provincia (incredibile, eh! Trovarle ancora dopo tanto tempo…), protestano veementi verso i loro sindaci perché non hanno riempito il tetto della scuola di pannelli fotovoltaici, votano a tutte le consultazioni con una percentuale da far gridare alla dittatura del proletariato, trattengono a stento le lacrime alla commemorazione della morte di Alda Merini, applaudono con orgoglio quando la nostra nazionale della ricerca scientifica vince i campionati dei finanziamenti pubblici tra gli Stati europei, schiaffeggiano il malcapitato quando, con ingenua tranquillità, dice “tanto qua non cambierà niente”.
Che forse mi sia spinto troppo in là con la fantascienza?
È giunta l’ora: con un ghigno famelico mi richiudo come liberato nel mio sogno rivoluzionario.

sabato 30 aprile 2011

L’ANACRONISMO DEL PD ED IL FUTURO DI UNA EREDITA’ VIVA.

Matteo Renzi scalpita da tempo per togliere il piedistallo a quelle statue che raffigurano (o sono?) gli attuali dirigenti del suo partito. Per adesso si è fermato sul predellino di Firenze, da cui tirare frecciate più robuste e autorevoli verso i marmi di Carrara. La sua parlata strascicata incarna la voglia di rinnovamento di tanti sostenitori piddini, la necessità di facce nuove, di un nuovo capitolo nella storia del più grande (in senso numerico) partito della Sinistra italiana.
Tutto ciò è noto. Al momento, questo non ha scalfito di una virgola l’asset della nomenclatura della dirigenza PD. Ma cosa c’è dietro questa voglia di nuovo? Come mai sembra non bastare la fusione DS-Margherita, operata tra gli altri da chi poi è fuggito in fretta e furia (Rutelli) e da chi è stato affondato dalla sua stessa visione kennedyana, di fatto non approvata dai suoi elettori (Veltroni)?
Perché l’identità del PD torna ricorsivamente a tentare di incarnarsi in un leader che la costruisca, o meglio che ne assembli i pezzi per farla assomigliare, anche asetticamente, a qualcosa di vagamente umano piuttosto che ad un mostruoso, sebben più romantico, Frankenstein?
La risposta mi è suggerita da una delle consuetudini più catastrofiche della nostra società, nello specifico nell’ambito riguardante i rapporti di coppia. Avete presente due fidanzati tipo, da quattro o cinque anni insieme, da due conviventi e sull’orlo di un crisi di noia? Cosa fanno in molti casi per dare una soluzione a questo strascico snervante e ammorbante? Si sposano.
Ecco, i DS e la Margherita mi pare abbiano fatto lo stesso, innescando una nuova ulteriore faticosa indefessa marcia con il fango fino alla cintura, senza sapere neppure dove stavano andando.
In questo senso il PD non rappresenta proprio niente di nuovo, raffigurato su questo piano sociologico a forma di matrimonio. E proprio come ogni buon matrimonio all’italiana che si rispetti, non mancano gelosie, ceffoni, piccole punture per piccoli dolori vendicativi, sceneggiate, bugie, tradimenti, ecc.
Come in un reality show, questa quotidiana anacronistica commedia delle parti è sotto gli occhi di tutti. E, visto che non bastava, arrivano anche gli altri partiti della corazzata anti-premier per fare di tutto ciò una bella famiglia allargata, un’orgia di compromessi, faticosa quanto disomogenea e difficilmente vincente. Meno male che almeno una parte di questa armata Brancaleone sta tentando di creare il famigerato “Terzo Polo”, che sembra tanto il titolo di un romanzo di Ken Follett. E forse questa è la cosa davvero più innovativa degli ultimi dieci anni: scardinare il fasullo bipolarismo italiano, rompere ipocrisie e maschere elettorali ed avviare la costruzione di un soggetto di centro che non sembri un po’ destra, né un po’ sinistra. E, appunto, la Sinistra che fine farebbe? È certo che se il terzo polo decollasse, diversi piddini non avrebbero motivo di resistere ai richiami melliflui da sirena del buon Rutellone che da là tenderebbe mani, braccia e pinna.
Ma, come il divorzio per la coppia sopra descritta sarebbe un male foriero di due nuove vite potenzialmente migliori (non me ne voglia Giovanardi), così la Sinistra avrebbe davvero l’opportunità di darsi un’identità nuova, con buona pace di Renzi.
Un avvertimento però: la Sinistra non può lasciare le massicce e radicali eredità politiche vive di Enrico Berlinguer, prima e Tom Benetollo poi. Il nuovo e le nuove facce, le loro proposte, la loro agenda, i loro DNA politici devono nascere da lì: altrimenti è bene che si facciano da parte subito.
Nel frattempo, teniamo il lapis elettorale in una mano e con l’altra turiamoci il naso per non odorare questo groviglio di politicanti ficcatisi da soli nel cestino dell’organico per inseguire miopi e sterili convenienze personali o di rappresentanza.

martedì 26 aprile 2011

Trecento euro

Me ne stavo andando su un marciapiede in città, quando intercetto non volendo una chiacchera tra due signore: “.. e quindi mi ha detto che le analisi andavano bene, mi ha fatto un po’ di controlli e dopo tre quarti d’ora avevo già finito”. E l’altra: “Ah, meno male. Certo, ha fatto presto! Bisognerebbe che anch’io facessi un po’ di controlli… quanto ti prende a visita?”. Risposta:”Trecento euro”. L’altra:”Accipicchia! Mi sembra un po’troppo. Io non c’andrei… ma comunque fa bene, finché c’è chi glieli dà, fa bene!”.
Cammino per qualche metro per la mia strada, incurante di tutto ciò. Poi, d’improvviso, mi sorge un pensiero dallo stomaco, e mi fermo. No, non fa bene a chiedere trecento euro per una visita: quel dottore sbaglia, è bene dirselo. Non è eticamente giusto chiedere quella cifra per una visita: da un punto di vista opportunistico è perfettamente coerente, ma da quello etico no. E io da un dottore mi aspetto etica (e non solo da lui), perché sta lavorando per la mia salute. Da italiano, mi sono rotto le scatole di sentire giustificato qualunque comportamento egoistico come perfettamente tollerabile. Penso che sia solo un atteggiamento solidale fra italiani (e non) l’unica ancora di salvezza in questa catastrofe triviale che è la nostra società. Occorre esercitarsi a grattar via dalla nostra pelle quel marcio incrostato che è l’abitudine all’approfittarsi, al farsi gli affari propri in ogni modo e più lucrativamente possibile, alla mancanza di scrupoli. È un po’ come il pregare: è un esercizio all’introspezione, al dialogo spirituale, al concedersi del tempo per se stessi, per la propria crescita, per il proprio benessere, quello vero. Quanto quel dottore starebbe meglio, quel giorno che invece di intascare (magari esentasse) mille e duecento euro per quattro visite in mezza giornata, ne chiedesse cinquanta a visita (cioè molti) ritrovandosi davanti facce soddisfatte e grate, invece che contrite e tristi, perché forse un terzo del loro stipendio se lo sono “giocato” in nemmeno un’oretta?
Certamente questo dottore è solo un esempio: il suo comportamento è perfettamente rintracciabile in modalità, qualità e quantità diverse anche in molti di noi.
Un atteggiamento più leggero e meno attento al tornaconto in denari, sono convinto ci porterebbe ad un tornaconto in qualità di vita sicuramente più vantaggioso.
In lontananza, mentre scrivo queste ultime righe, le campane suonano a festa e mi sembra che approvino con un sorriso.

venerdì 15 aprile 2011

Amore

L’amore è un’attitudine curiosa, sia in senso passivo che in senso attivo. Mi spiego meglio: l’attitudine “amore” è curiosa perché si distingue da tutte le altre attitudini proprie dell’esistere per particolare incapacità razionale, abbondante interazione corporea a mezzo endorfinico, similarità con un certo effetto addolcente della marijuana. È un’attitudine curiosa anche perché vuole sempre indagare il bersaglio di Eros, non si accontenta mai di restare dov’è, nell’incertezza, nel limbo: o inferno o paradiso, quel che sia, sia. E già che ci siamo l’attitudine curiosa vuole sapere un po’ di più, vuole conoscere tutte le facce, gli specchi, gli inganni, gli entusiasmi. E in questo senso è un’attitudine curiosa attiva.
Ma questo anelare al raggiungimento dello stato di innamoramento dove ci porta? Le strade che imbocchiamo per questo scopo sono le più svariate dai risultati più diversi fra loro: si va dall’anima gemella alla più atroce non corrispondenza di intenti fra te e il potenziale amore della tua vita.
E in ogni caso, la maggior parte di noi, per discendenze culturali, quando ama l’altro, desidera anche l’altro, cioè l’altro diventa anche obiettivo di attaccamento, diventa un oggetto di desiderio.
Ma allora se un oggetto lo desidero, tento di entrarne in possesso. E il possesso è un esercizio di potere.
Accidenti! Ma perché sporcare la cosa più bella che ci resta a noi umani sciagurati con il possesso ed il potere? Ragioni culturali, appunto? Merita senz’altro cercare una risposta con un’introspezione individuale, profonda.
Riusciremo ad amare qualcuno senza la voglia di possederlo, di averne qualche pezzo in esclusiva?
Forse è un’utopia, ma un’utopia non è affatto irraggiungibile: è lontanissima ed infinita, ma il tenderci ci renderebbe, credo, gente migliore.

Cristalli di sole
mi spiegano le ali
imparo un amore
e mi scopro a volare.

(“Silenzio”, da “Appunti ai Naviganti – tra terra e mare” di Fabio Artigiani, Pascal Editrice, Siena, 2009)

mercoledì 13 aprile 2011

Possesso

“Le mie catene ti possiedono”, pensò Marco in un attimo di pura consapevolezza delle proprie debolezze. Adele, la sua fidanzata, lo guardava con quell’aria a metà, tipica sua, che la rendeva più indecifrabile di una Monna Lisa. Ma lui non accennava a dare risposta, non voleva rivelarle il suo pensiero.
Perché? Proviamo a cercare di scoprire perché Marco non vuole dire alla sua fidanzata Adele “le mie catene ti possiedono”. E cosa vuole dire questo pensiero?
Come reagirebbe Adele a questa frase? Beh, probabilmente lei, da buon spirito libero, avrebbe dapprima un senso di fastidio, poiché sentirsi posseduta da qualcuno non le piace proprio, figuriamoci dalle catene di qualcuno! E cosa sono queste catene pensate da Marco come una sorta di tentacoli che, dotati di vita propria, avvinghiano Adele in una stretta morbosa?
Marco avanzò verso di lei. La strinse forte come si fa con un pupazzo di pezza quando, da bambini, sentiamo il temporale da sotto le coperte. È come se le chiedesse di aiutarlo. Adele lo spinse via, sentendo che qualcosa di quell’abbraccio non le apparteneva, che non c’era una spontanea comunicazione affettiva ma qualcosa a lei sconosciuto.
Marco s’infilò i suoi occhiali da sole e sparì sgommando con il suo SUV.
Spinse l’acceleratore in maniera inconsueta, affondando il pedale nella sua ferita. La velocità ed il rischio gli facevano sentire come un riappropriarsi della vita, come una pasticca che ti culla, che ti fa sentire di esserci: se rischio la vita, allora vuol dire che vivo.
Più Adele gli sfuggiva al controllo, più lui la desiderava; sentiva quelle piccole ferite come un segno di forza di Adele, come una madre che ti schiaffeggia per rammentarti “tu sei mio!”.
Miracolosamente illeso (e con lui gli astanti momentanei contingenti alla sua fuga a tutta velocità), scese dall’auto, in mezzo ad una spiaggia e si piazzò davanti al mare.
Come un imperatore, respirò il sale che il suo orizzonte produceva e si sentì di nuovo il potente creatore del suo destino. Mentre lui guardava il sole a picco sul mare infrangersi e diluirsi in una macchia arancione come il fuoco, una lente oscurata lo proteggeva dai raggi UV, lo proteggeva da una visione troppo chiara di se stesso: quel pensiero avuto all’inizio aveva tutte le intenzioni di spingersi più in là, ma Marco, o la mente di Marco, non lo permise. Almeno per un po’.

giovedì 31 marzo 2011

Pacco bomba a Livorno: vergogna.

"Ecco i risultati del clima di odio contro il governo e le istituzioni: il terrorismo rialza la testa e si fa sentire con un pacco bomba alla caserma della Folgore, colpendo giovani che sono in prima linea in Italia e nel mondo nella battaglia per la libertà". A sostenerlo è il sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Alberti Casellati che, in una nota, avverte: "O ci si ferma subito o il nostro Paese rischia di scivolare verso una deriva pericolosissima, di cui saranno responsabili tutti coloro che, non riuscendo a vincere alle urne, cercano di abbattere il governo voluto dal popolo con insulti, bugie e attacchi giudiziari" (dali sito di Repubblica.it del 31-03-2011).
Vergogna. Per chi, vigliaccamente, ha consegnato un plico esplosivo per proporre criminalmente una propria idea. Per chi, cinicamente, ci si butta a pesce per strumentalizzare una disgrazia a fini politici.
Fate schifo, sappiatelo, sentitelo, odoratelo.

sabato 26 marzo 2011

La pappa in capo

L’Italia, dopo la sbornia del 150° anniversario della sua nascita, è bene che si ridimensioni a quella che è. Ci hanno raccontato fin dalle elementari che noi siamo una della più forti nazioni al mondo (allora la settima potenza industriale); negli anni ’60 abbiamo vissuto un boom economico straordinario e gli italiani hanno cominciati ad arricchirsi, dopo i magri anni della guerra.
Ed oggi, cosa siamo? Chi siamo? Ad una rapida ascesa nelle accumulazioni di capitali, non c’è stata un’altrettanto rapida ascesa culturale: ma nemmeno lontanamente. Chi un minimo ha viaggiato in Europa anche solo come turista lo può sapere: non c’è il ben ché minimo paragone con stati a noi vicini come Francia, Germania, Inghilterra e finanche la Spagna. E la cultura non si misura solo con  musei, chiese, monumenti, architetture, produzioni letterarie, ecc., ma soprattutto con la capacità dei cittadini di discernere tra il bene ed il male  per la collettività, con la capacità di essere liberi e di far rispettare questa condizione nel tempo, con la capacità di difendere senza indugio alcuno la propria dignità come popolo, come identità culturale, come persona.
Secondo voi, noi come siamo messi? Davvero pensate che i vostri danari bastino a comprare la vostra dignità? No, serve la cultura, nient’altro.
Mi ricordo un mio vecchio professore di disegno che avevo in prima superiore, all’Istituto Tecnico, vicino alla pensione. Era di quelli che ti faceva ancora alzare in piedi quando entrava e potevi sederti solo quando lui, da dietro la cattedra, dopo essersi tolto il cappello, aveva guardato negli occhi ognuno di noi, accomodandosi poi sulla sedia. Un giorno, alla fine di una lezione, durante un piccolo dibattito avvenuto in aula ci disse: “Ricordatevi di studiare e di approfondire la vostra cultura, perché è solo con la cultura che non riusciranno a mangiarvi la pappa in capo”.
I comunisti in Italia c’hanno messo vent’anni per credere che quello che accadeva nella Russia del “sol levante” non erano balle, ma la verità. Oggi, quanto ci metteremo a capire che il narcisista Silvio Berlusconi ha davvero mangiato e mangia la “pappa in capo” a milioni di italiani?

domenica 20 marzo 2011

Moderni Kamikaze

Coloro che stanno attorno ai reattori nucleari esplosi per tentare di spegnerli, sono come moderni kamikaze. Si gettano in picchiata verso la morte, per la patria, per la gente. Le radiazioni che si prendono oggi con tutta probabilità li uccideranno domani. Al grido di “banzai!” stanno cercando il modo più veloce per porre fine alle emissioni radioattive.
Coloro che hanno provato a liberare la Libia dalla stretta strangolatrice di Gheddafi, da ribelli, sono come moderni kamikaze. Hanno combattuto sapendo di soccombere senza un aiuto esterno: hanno sperato e sono morti, provando a portare la libertà, concedendo in dote il proprio corpo, un po’ come certe signorine dalle nostre parti. Ma qui il denaro non c’entra niente.
Qual è il comune denominatore dei kamikaze? Qual è l’etica dei tuffatori suicidi? E come mai non suscitano quell’ammirazione mondiale che ci si aspetterebbe in gran quantità?
Perché gli specchi talvolta fanno male. Le nostre vite si riflettono nel loro agire e ci fanno sentire piccoli, anche un po’ spauriti, disarmati, sorpresi. E forse qualcuno non ha gli strumenti per riuscire a guardarsi negli occhi attraverso quegli specchi: il coraggio s’impara, infatti, solo nel buio delle nostre paure, esplorandole, vivendole.

venerdì 18 marzo 2011

Cuori nucleari

Non credo ci sia della noncuranza dietro la decisione di rischiare le vite di migliaia di persone pur di far fruttare denaro con delle centrali nucleari obsolete. Non è possibile che i detentori del potere non sapessero della gravità della decisione che stavano prendendo. Forse è codardia, oppure l’incapacità di andare contro forti e stringenti interessi economici, come se questo fosse il peggiore incubo che una mente umana possa affrontare nel suo profondo. Credo piuttosto che sia una dipendenza dall’accumulare denaro e potere. E la dipendenza è talmente alta che tali personaggi non hanno la forza di contraddirla, di vincerla, di fare uno scatto decisivo di amor proprio. Già, “l’amor proprio”… essenziale per avere amore per gli altri. E l’amore per gli altri è essenziale per chi siede in posti di potere che, in teoria, sono il luogo delle decisioni nel nome e nel bene della collettività.
Chissà come si sente il premier giapponese, adesso, e tutti quei funzionari custodi del denaro che siedono sulle poltrone di grandi aziende di energia elettrica? Proviamo ad entrare nelle loro scarpe: quale aridità glaciale dovremmo sopportare? Il nostro cuore reggerebbe? Quale reale disperazione del vivere, o meglio del sopravvivere alle proprie debolezze?
Non odio, per favore: le guerre di frontiera tra buoni e cattivi lasciamole fare a loro.
Rinchiudiamoci nelle nostre quotidianità amorose, salvaguardiamole come le più importanti fonti di energia: se esplodessero i nostri cuori nucleari, sarebbe davvero la fine della nostra civiltà.

mercoledì 16 marzo 2011

“Noi siamo un paese senza memoria.

Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi,

i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.

Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è.

In cui tutto scorre per non passare davvero.

Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale”.

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, 1975

venerdì 11 marzo 2011

Onde di fuoco

Come lame d’acqua, la massa azzurra e terribile ha invaso la terra di Giappone. Chilometri di affondo, con il fuoco a pelo d’acqua, magazzini e case galleggianti in fiamme. Un abbraccio morboso e devastatore, dispersore di civiltà e strutture, di vite e sogni.
Lo Tsunami ha lasciato a terra le nostre possibilità di volo, a Sendai.
Stiamo vivendo giorni di terremoti, dal nord Africa, al medio-oriente, al Pacifico. La Terra trema, trasformata dai pensieri, come in Libia, Tunisia, Algeria, Yemen, Egitto. Trasformata dal magma in movimento nella profondità del nostro esistere, come per il nostro più grande mare.
Trasformazioni.
E la nostra identità umana vacilla e spera, forse si rafforza, forse si abbandona alla paura, allo sconforto.
Le nostre attenzioni si facciano vicine e di calore, resistenti agli urti della Natura, disposte all’accoglienza di chi vuole cambiare.

sabato 5 marzo 2011

Le armi statali ed un'utopia

Propongo una campagna per l’adozione di una normativa europea che vieti la produzione di armi da parte di privati. Ogni stabilimento che fabbrichi armi dovrà essere totalmente pubblico e dovrà avere, quindi, solamente clienti statali. Così, in Europa non si potranno più fabbricare armi che non servano esclusivamente Stati riconosciuti. Ogni ente pubblico che gestisca la produzione statale di armi dovrà avvalersi di una certificazione che obblighi lo stesso alla vendita esclusivamente ad apparati militari di Stati non di regime, ma eletti democraticamente con voto. Non possono perciò essere ammessi tra i clienti Stati a conduzione politica monarchica o militare, di nessun tipo. Dovranno essere previsti forti incentivi per la riconversione delle attuali industrie private, che non vogliano accettare una ragionevole offerta di acquisto da parte dello Stato, aumentandoli se la riconversione verte sulla produzione nell’ambito delle energie alternative.
Pensiamo a costruire energia gratis, rinnovabile, non armi per le bande armate africane!
I più atroci genocidi avvengono perché teste invasate dalla violenza subita, vengono armate da commercianti e industriali senza scrupoli. I massacri perpetrati nel mondo da bande, milizie, eserciti illegali e non, sono centinaia ogni giorno e mettono in ginocchio interi Stati, creano la fame, mutilazioni, personalità violente e violentate, odio e rancore impastati e cementati dai proiettili, dalle bombe, dalle mine, dal fanatismo, dal fondamentalismo. Dal terrore.
Le armi hanno un solo scopo: distruggere. Qualsiasi arma. Ma il distruggere in sé non è male: dipende dallo scopo della distruzione. Se distruggo la vita di un animale perché ho fame e devo mangiarmelo, non è male. Se distruggo la vita di una persona perché ne ricavo denaro, invece è male. Sarà un ragionamento banale, ma chi vende armi non ragiona così: è bene focalizzarlo.
Anche perché il culmine di tutti i discorsi, scritti e pensieri intorno alla guerra è sempre il denaro. Ormai da strumento dell’economia è diventato il padrone: è l’economia uno strumento del denaro. Ed ha reso strumentale alla propria proliferazione anche l’animo umano di molti al mondo.
Siamo noi che usiamo il denaro o è il denaro che usa noi? E il denaro è in definitiva un costrutto mentale, perché il foglio con la filigrana dentro non ha alcun valore intrinseco: lo ha solo perché noi decidiamo di darglielo. Basta un numero stampato sopra con uno zero in più che la sua appetibilità sale vertiginosamente: ma come ci siamo ridotti? Schiavizzati da un zero o più zeri sul conto corrente? E il sole che sorge la mattina con tutta la sua meraviglia chi lo guarda? Pensate davvero che si può bramare al denaro e vivere la vita nella sua pienezza? Lo pensate davvero? Allora siete già schiavi, magari con uno yacht alla fonda a Porto Rotondo. Oppure senza yacht, che è anche peggio.

mercoledì 2 marzo 2011

Il corpo e Facebook

Nei primi anni novanta, ero un appassionato di giochi di ruolo. In particolare ce n’era uno (e mi sa che esiste ancora) che si chiamava “Cyberpunk 2020” ed era ambientato nella fantascienza  narrativa creata da William Gibson e Bruce Sterling. Solo dopo anni apparve la trilogia di “Matrix” su grande schermo.
Il tema più intrigante di quel gioco di ruolo era la realtà virtuale e i giocatori potevano impersonare hacker che si connettevano alla rete fisicamente, attraverso dei cavi abbracciati al loro sistema nervoso che sbucavano direttamente dal corpo. A ricordarlo oggi, sembra una novità da poco, ma all’epoca era molto figo.
Non mi sembra che ci siamo andati tanto lontani. Mi spiego.
Prendiamo Facebook: i contatti che puoi avere con le altre persone sono “virtuali”, cioè non sono “di persona”. Le conoscenze di altre persone avvengono attraverso la visione di foto, la lettura di descrizioni scritte, le conversazioni mancano del timbro della voce, delle posture e di tutto il corollario non verbale del nostro comunicare: a buon diritto quindi possiamo definire perciò questi scambi “virtuali”. Poi succede che due persone si danno appuntamento davvero, live. Ecco che entra in scena il corpo: come per gli hacker del cyberpunk, la fisicità è collegata alla virtualità, i cavi sono le nostre mani sulle tastiere, il mutuo scambio tra questo due mondi diventa la nostra vita. Ed è proprio qui l’aspetto secondo me più interessante, antropologicamente dirimente tra un’era pre-virtuale e post-virtuale: non c’è più il confine, non c’è un momento in cui ci si “stacca” dalla rete, dai social network, raggiungibili tramite dispositivi portatili sempre a portata di mano. I nostri “amici su Facebook” li abbiamo interiorizzati, potremmo, in molti casi di fruitori abituali, citare a memoria tutte le foto postate in rete e pure quali tags hanno su, chi ha detto cosa: “ti ho letto su Facebook”, “ci becchiamo su Facebook”.
In sé la cosa non è poi tanto male, l’importante è esserne consapevoli. Nel gioco di ruolo, tu che impersonavi un hacker sapevi perfettamente che stavi collegando il tuo corpo ad una macchina da comunicazione, da esplorazione, e ne conoscevi tutti i rischi: la fine più probabile che potesse fare un hacker in quel gioco era ritrovarsi col cervello “fritto” da un virus rintanato in qualche difesa di un database che aveva come effetto una manipolazione hardware del computer dell’hacker, in modo che la corrente sbucasse potente dai cavi su su fino al corpo. Nell’epoca dei social network la faccenda si fa più sottile, meno evidente: i cavi non ci sono, ma i rischi di friggersi sì. Quando si dice questo, subito in molti fanno la faccia schifata e snobbano la questione, liquidandola come la solita ramanzina sulla pericolosità dell’uso della tecnologia, di solito fatta da chi la tecnologia non sa nemmeno dove sta di casa. E a volte è vero. Ma varrebbe la pena comunque interrogarsi se sia la rete ad averci irretito oppure siamo noi i pescatori protagonisti del nostro navigare virtuale.
Perché nel primo caso non mangeremo mai pesci, riusciremmo con grossa difficoltà ad individuare il confine tra virtuale e reale e a varcarlo da una parte all’altra solo quando ne abbiamo voglia (e non  bisogno), quindi anche ad incontrare dal vivo persone senza avere un continuo rimando a come veniva “su Facebook”. Nel secondo caso, invece, i pesci ce li mangiamo, li digeriamo, li facciamo nostri e ne sfruttiamo le proprietà energetiche: il social network diventa allora uno strumento efficace per gestire i propri contatti, le proprie amicizie, per farne di nuove e non uno scudo dietro cui parare le proprie paure, le proprie difficoltà.
Il rischio è proprio quello di non denudare al sole ciò che siamo, di non confrontarci, di non scambiare le pelli. E nemmeno di rischiare mai di “perdere”, per certi versi… che poi è l’unico modo per “vincere”.

sabato 12 febbraio 2011

IL PICCOLO ESSERE

Il potere ci prende allo stomaco e non ci lascia più. È come un piccolo essere che interlaccia i suoi tessuti molecolari ai nostri, prolunga le sue vene fino al nostro corpo e oltre, aggancia il suo sistema nervoso al nostro a suon di frustate sinaptiche, vive del nostro battito cardiaco. E, al momento opportuno, ci inonda di endorfine che ci elettrizzano, ci danno un vivido piacere totalizzante, ci liberano la mente dalle negatività, pompano la nostra autostima. Come si fa a dire di no?
Certo, il piccolo essere vuole qualcosa in cambio, ma non te lo chiede: se lo prende. E quindi spesso non c'è dato di accorgercene, oppure lo ignoriamo nel terrore di realizzare l'enormità di tale costo. Ma cosa è, cos'è che ci sottrae impunemente? Per rispondere a questo quesito, occorre andare a trovare un caro amico del piccolo essere.
Se pensiamo a dove più il potere si sviluppa, prolifica e permane in maniera darwinianamente schiacciante su tutto il resto, notiamo una forma di organizzazione verticistica, più o meno consapevole e conosciuta. La società occidentale e non è organizzata in modo che esista un capo e infiniti sottocapi sotto di lui; le aziende nella maggior parte dei casi rispondono ugualmente a questa logica; il sistema familiare è esso stesso parte integrante di questo processo ed anzi, proprio perché spesso è strutturato in maniera gerarchica, è fonte dell'abitudine alla gerarchia fin da piccoli.
Un sistema perfetto, che si autoriproduce e si autoalimenta. Come il piccolo essere.
Ma qual è quel suo amico senza il quale lui stesso non potrebbe letteralmente vivere? Il ricatto.
Un capo comanda solo se è in grado di ricattare chi gli sta sotto: se tu non fai così, allora ti succede questo. Un rappresentante delle forze dell'ordine non avrebbe alcuna autorità senza il ricatto dello spararti, senza una legge che lo tuteli fortemente dandogli altri strumenti di ricatto. Un padre e una madre, spessissimo usano il ricatto per far fare ai figli quello che vogliono: se tu non fai così, allora ti succede questo.
Tutto ciò può sembrare esagerato e radicale: pensateci, è così. Possiamo intimamente dare un'accezione negativa o positiva a quello o quell'altro ricatto, ma questo non evita che la faccenda stia in questo modo.
L'unico caso in cui il potere non si basa sul ricatto, è quando una persona acquisisce autorevolezza agli occhi degli altri per meriti, per azioni intraprese, per comportamenti virtuosi, per intelligenza e saggezza. Allora gli altri gli concedono forme diverse di potere, che spaziano dall'ascolto attento, alla possibilità di gestire su mandato la propria società. Ma questo potere è difficile da ottenere e, spesso, una volta ottenuto, si mantiene con difficoltà. Allora tanto meglio usare il ricatto.
È a questo punto che il piccolo essere entra in scena con un ghigno: "ne ho fatto fesso un altro!" e lui si nutre, cresce e si moltiplica. E subito si prende il tuo corpo, il tuo cuore, la tua anima. Messa così sembra una favoletta per bambini: se ti sembra una favoletta per bambini, allora probabilmente hai sperimentato un po' di potere, più o meno consapevolmente, hai sperimentato il ricatto, più o meno consapevolmente.
Ne "Il Signore degli Anelli", Tolkien ci dice che la razza umana non è in grado di gettare l'anello del potere nel Monte Fato, l'enorme vulcano in cui è stato forgiato. Eppure l'anello alla fine dentro il magma ci va, per caso, per un disguido tra esseri fantastici non umani, che però rappresentano lati tipici dell'umanità. Chi non ritrova un po' di Frodo e un po' di Gollum in se stesso?
Allora forse le cose stanno diversamente, allora la possibilità di liberarci del potere alberga anche in noi. Basta cercarla.

L'IMPALCATURA

Fuori dalla mia finestra vigila un'impalcatura da più di un anno. Sono al quarto piano e questa vista mi comincia ad angosciare. Perché? Forse è brutta, limita un po' la vista. Ma no, non è per questo.
È che può montarci sempre qualcuno su quelle assi, può sempre esserci qualcuno davanti alla tua finestra. Anche alle tre di notte. E non è la paura di essere spiato o derubato o aggredito (finestra e tenda funzionano egregiamente), ma un mix micidiale di sensazioni: quella di non poterti sentire solo mentre guardi il cielo; quella di non poterti sentire in intimità con te stesso, completamente, in quella stanza; l'incazzatura di dover tirar giù la tapparella e fare buio anche quando non vuoi per creare un surrogato di isolamento, chiuso come in una scatoletta da supermercato autocostruita.
Ecco io vorrei avere un'impalcatura che viene e va a mio piacimento, che mi dia il brivido di una possibile presenza oltre-finestra quando ne ho voglia, che sparisca quando voglio il quotidiano.
Un po' come una televisione che spengo e accendo... forse no... davvero la televisione la spengo e la accendo a mio piacimento? E quando la spengo, riesco ad avere una sensazione di intimità con me stesso oppure mi sento a disagio nel silenzio? E quando la accendo la uso la televisione o mi faccio suggerire acriticamente? Ci stanno tante vie di mezzo tra queste estremità e le risposte stanno lì (mai nel mezzo preciso, comunque, almeno un pochino più in là: il centro perfetto è l'unica estremità davvero irraggiungibile). A pensarci bene, a volte, con la televisione accesa, ho un po' le sensazioni da impalcatura forzata. E allora la spengo. Tra l'altro, in prospettiva, stanno un metro l'una dall'altra e forse un pochino, in questo anno e passa, si sono influenzate a vicenda: "siete una coppia che non mi piace per niente, voi due", ho appena detto loro, ma non mi hanno risposto. Loro non parlano, nemmeno la televisione, nemmeno quando è accesa. Ricordiamocelo: la televisione non parla o almeno non parla con te. Bisognerebbe ascoltarla come le chiacchere al bar, come dal parrucchiere, oppure come a teatro davanti ad uno spettacolo o al cinema. Non cadete nella tentazione di scambiare un po' della vostra intimità col televisore, giusto per sentire meno la solitudine: la televisione non fa compagnia. E non cadete nella tentazione di condividere le vostre paure con un'impalcatura: prima o poi la smontano.

LA LIBERAZIONE DEL CUORE

Chiudete gli occhi. Ascoltate il vento che pulsa dentro di voi. La malattia non esiste. La cosiddetta scienza non vi guarisce, l'occidente non è più così potente come crede. Lourdes sta guardinga ad aspettarvi. E a volte il miracolo riesce. Ma da dove viene l'energia liberatrice, l'ostetrica della vostra rinascita? Ascoltate il vento che pulsa dentro di voi. Qualcuno o qualcosa vi parla "la risposta, amici miei, soffia nel vento". La mente che non riesce a spiegare se stessa, svicola aggrappandosi a maniglie divine: e ce ne fossero di maniglie comunque così efficienti! E allora i miracoli ci aiutano a capire come si guarisce: perché fermarsi a Dio, quando abbiamo davanti l'opportunità di capire come qualcuno ha guarito se stesso?
Chiudete gli occhi. Sentite che il vostro sospiro, di fronte a questi interrogativi, vi sta chiedendo di mollare la zavorra? Lasciatevi trasportare verso il fondo di voi stessi, abbracciatevi da piccoli e datevi quell'amore di cui solo voi sapete la misura, la qualità, la profondità giusta e necessaria. I genitori spesso si illudono di sapere chi sono i propri figli meglio di loro stessi, e spesso propinano involontariamente questo messaggio alla progenie: ma non è così. I vostri errori e le vostre malattie vivono con voi, non abbandonateli, non disprezzateli, non ignorateli: vi stanno chiedendo ascolto, amore, un abbraccio. Potete salire più su, dai vostri piedi fino ai genitali, fino al cuore, fino ai capelli, fino all'aura più magica di voi stessi. Esiste, se la ascoltate, nel vento, dentro di voi.
E l'anima si fa tangibile, finalmente potete toccare chi siete, chi sareste stati, chi sarete. Potete formare il vostro destino come mai è stato, potete risollevarvi, guarire, per caso, verso un obiettivo che va oltre il filo d'erba che è la malattia.
Guarire è essere se stessi con coraggio, fino in fondo alla sofferenza e all'accettazione, con l'accoglienza del buio, al buio, delle nostre parti più volutamente (da chi?) nascoste. E solo dal buio si intravede una luce, senza occhiali a proteggere, lasciandosi ustionare gli occhi e le lacrime dall'immensità di ciò che siamo.

LA NOTTE DA CASA MIA

La trasparenza della notte tinge di tenui colori pastello i neon delle case. Corpi sinuosi si affacciano temporanei al mio sguardo quasi furtivo, dalle finestre, avvolti nelle tende domestiche, ignari, o forse consapevoli. C'è un sottile piacere voyeristico nel pensare che qualche sconosciuto o sconosciuta dall'altro palazzo sta guardando verso di te: "è la situazione ideale", pensi per un attimo; hai la tentazione di spogliarti delle inibizioni e provare un erotismo orgiastico urbano, senza webcam, a portata d'aria. Poi ti rendi conto che sei riconoscibile, rintracciabile e l'energia pungente, prima motore di fantasie, si trasforma immediatamente in disagio e poi paura. Ti ritiri nei tuoi sogni rossi e neri, e la tua parte bambina osserva nervosa se nessuno abbia visto, se nessuno abbia giudicato.
E fuori da casa mia, ancora luci accese disegnano casuali colori su sfondo blu notte, la fotografia si compone davanti agli occhi, come sempre le meraviglie del mondo vanno però cercate, volute, annusate, assaggiate. Occorre andargli incontro come vecchi amici o come ammiratori solitari, come sillabe pronte ad entrare a far parte di un discorso, a dare un senso compiuto a quel pezzetto di esistenza che vivi, in quel momento, negli istanti che fuggono al tempo ma non alla memoria, non allo stupore.
Poi l'esperienza si chiude, come in se stessa, ad accudire il vissuto, come un'orchidea che racchiude la sua preda vitale per scomporla, per estrarne i pezzi che nutrono la crescita, che combinano le sinapsi e giocano tra la nostra mente. La conclusione è un altro fiore, di profumo e colore.
Di nuovo dalla notte spunta la speranza.