.......I pensieri trasformano la Terra.

giovedì 31 marzo 2011

Pacco bomba a Livorno: vergogna.

"Ecco i risultati del clima di odio contro il governo e le istituzioni: il terrorismo rialza la testa e si fa sentire con un pacco bomba alla caserma della Folgore, colpendo giovani che sono in prima linea in Italia e nel mondo nella battaglia per la libertà". A sostenerlo è il sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Alberti Casellati che, in una nota, avverte: "O ci si ferma subito o il nostro Paese rischia di scivolare verso una deriva pericolosissima, di cui saranno responsabili tutti coloro che, non riuscendo a vincere alle urne, cercano di abbattere il governo voluto dal popolo con insulti, bugie e attacchi giudiziari" (dali sito di Repubblica.it del 31-03-2011).
Vergogna. Per chi, vigliaccamente, ha consegnato un plico esplosivo per proporre criminalmente una propria idea. Per chi, cinicamente, ci si butta a pesce per strumentalizzare una disgrazia a fini politici.
Fate schifo, sappiatelo, sentitelo, odoratelo.

sabato 26 marzo 2011

La pappa in capo

L’Italia, dopo la sbornia del 150° anniversario della sua nascita, è bene che si ridimensioni a quella che è. Ci hanno raccontato fin dalle elementari che noi siamo una della più forti nazioni al mondo (allora la settima potenza industriale); negli anni ’60 abbiamo vissuto un boom economico straordinario e gli italiani hanno cominciati ad arricchirsi, dopo i magri anni della guerra.
Ed oggi, cosa siamo? Chi siamo? Ad una rapida ascesa nelle accumulazioni di capitali, non c’è stata un’altrettanto rapida ascesa culturale: ma nemmeno lontanamente. Chi un minimo ha viaggiato in Europa anche solo come turista lo può sapere: non c’è il ben ché minimo paragone con stati a noi vicini come Francia, Germania, Inghilterra e finanche la Spagna. E la cultura non si misura solo con  musei, chiese, monumenti, architetture, produzioni letterarie, ecc., ma soprattutto con la capacità dei cittadini di discernere tra il bene ed il male  per la collettività, con la capacità di essere liberi e di far rispettare questa condizione nel tempo, con la capacità di difendere senza indugio alcuno la propria dignità come popolo, come identità culturale, come persona.
Secondo voi, noi come siamo messi? Davvero pensate che i vostri danari bastino a comprare la vostra dignità? No, serve la cultura, nient’altro.
Mi ricordo un mio vecchio professore di disegno che avevo in prima superiore, all’Istituto Tecnico, vicino alla pensione. Era di quelli che ti faceva ancora alzare in piedi quando entrava e potevi sederti solo quando lui, da dietro la cattedra, dopo essersi tolto il cappello, aveva guardato negli occhi ognuno di noi, accomodandosi poi sulla sedia. Un giorno, alla fine di una lezione, durante un piccolo dibattito avvenuto in aula ci disse: “Ricordatevi di studiare e di approfondire la vostra cultura, perché è solo con la cultura che non riusciranno a mangiarvi la pappa in capo”.
I comunisti in Italia c’hanno messo vent’anni per credere che quello che accadeva nella Russia del “sol levante” non erano balle, ma la verità. Oggi, quanto ci metteremo a capire che il narcisista Silvio Berlusconi ha davvero mangiato e mangia la “pappa in capo” a milioni di italiani?

domenica 20 marzo 2011

Moderni Kamikaze

Coloro che stanno attorno ai reattori nucleari esplosi per tentare di spegnerli, sono come moderni kamikaze. Si gettano in picchiata verso la morte, per la patria, per la gente. Le radiazioni che si prendono oggi con tutta probabilità li uccideranno domani. Al grido di “banzai!” stanno cercando il modo più veloce per porre fine alle emissioni radioattive.
Coloro che hanno provato a liberare la Libia dalla stretta strangolatrice di Gheddafi, da ribelli, sono come moderni kamikaze. Hanno combattuto sapendo di soccombere senza un aiuto esterno: hanno sperato e sono morti, provando a portare la libertà, concedendo in dote il proprio corpo, un po’ come certe signorine dalle nostre parti. Ma qui il denaro non c’entra niente.
Qual è il comune denominatore dei kamikaze? Qual è l’etica dei tuffatori suicidi? E come mai non suscitano quell’ammirazione mondiale che ci si aspetterebbe in gran quantità?
Perché gli specchi talvolta fanno male. Le nostre vite si riflettono nel loro agire e ci fanno sentire piccoli, anche un po’ spauriti, disarmati, sorpresi. E forse qualcuno non ha gli strumenti per riuscire a guardarsi negli occhi attraverso quegli specchi: il coraggio s’impara, infatti, solo nel buio delle nostre paure, esplorandole, vivendole.

venerdì 18 marzo 2011

Cuori nucleari

Non credo ci sia della noncuranza dietro la decisione di rischiare le vite di migliaia di persone pur di far fruttare denaro con delle centrali nucleari obsolete. Non è possibile che i detentori del potere non sapessero della gravità della decisione che stavano prendendo. Forse è codardia, oppure l’incapacità di andare contro forti e stringenti interessi economici, come se questo fosse il peggiore incubo che una mente umana possa affrontare nel suo profondo. Credo piuttosto che sia una dipendenza dall’accumulare denaro e potere. E la dipendenza è talmente alta che tali personaggi non hanno la forza di contraddirla, di vincerla, di fare uno scatto decisivo di amor proprio. Già, “l’amor proprio”… essenziale per avere amore per gli altri. E l’amore per gli altri è essenziale per chi siede in posti di potere che, in teoria, sono il luogo delle decisioni nel nome e nel bene della collettività.
Chissà come si sente il premier giapponese, adesso, e tutti quei funzionari custodi del denaro che siedono sulle poltrone di grandi aziende di energia elettrica? Proviamo ad entrare nelle loro scarpe: quale aridità glaciale dovremmo sopportare? Il nostro cuore reggerebbe? Quale reale disperazione del vivere, o meglio del sopravvivere alle proprie debolezze?
Non odio, per favore: le guerre di frontiera tra buoni e cattivi lasciamole fare a loro.
Rinchiudiamoci nelle nostre quotidianità amorose, salvaguardiamole come le più importanti fonti di energia: se esplodessero i nostri cuori nucleari, sarebbe davvero la fine della nostra civiltà.

mercoledì 16 marzo 2011

“Noi siamo un paese senza memoria.

Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi,

i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.

Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è.

In cui tutto scorre per non passare davvero.

Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale”.

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, 1975

venerdì 11 marzo 2011

Onde di fuoco

Come lame d’acqua, la massa azzurra e terribile ha invaso la terra di Giappone. Chilometri di affondo, con il fuoco a pelo d’acqua, magazzini e case galleggianti in fiamme. Un abbraccio morboso e devastatore, dispersore di civiltà e strutture, di vite e sogni.
Lo Tsunami ha lasciato a terra le nostre possibilità di volo, a Sendai.
Stiamo vivendo giorni di terremoti, dal nord Africa, al medio-oriente, al Pacifico. La Terra trema, trasformata dai pensieri, come in Libia, Tunisia, Algeria, Yemen, Egitto. Trasformata dal magma in movimento nella profondità del nostro esistere, come per il nostro più grande mare.
Trasformazioni.
E la nostra identità umana vacilla e spera, forse si rafforza, forse si abbandona alla paura, allo sconforto.
Le nostre attenzioni si facciano vicine e di calore, resistenti agli urti della Natura, disposte all’accoglienza di chi vuole cambiare.

sabato 5 marzo 2011

Le armi statali ed un'utopia

Propongo una campagna per l’adozione di una normativa europea che vieti la produzione di armi da parte di privati. Ogni stabilimento che fabbrichi armi dovrà essere totalmente pubblico e dovrà avere, quindi, solamente clienti statali. Così, in Europa non si potranno più fabbricare armi che non servano esclusivamente Stati riconosciuti. Ogni ente pubblico che gestisca la produzione statale di armi dovrà avvalersi di una certificazione che obblighi lo stesso alla vendita esclusivamente ad apparati militari di Stati non di regime, ma eletti democraticamente con voto. Non possono perciò essere ammessi tra i clienti Stati a conduzione politica monarchica o militare, di nessun tipo. Dovranno essere previsti forti incentivi per la riconversione delle attuali industrie private, che non vogliano accettare una ragionevole offerta di acquisto da parte dello Stato, aumentandoli se la riconversione verte sulla produzione nell’ambito delle energie alternative.
Pensiamo a costruire energia gratis, rinnovabile, non armi per le bande armate africane!
I più atroci genocidi avvengono perché teste invasate dalla violenza subita, vengono armate da commercianti e industriali senza scrupoli. I massacri perpetrati nel mondo da bande, milizie, eserciti illegali e non, sono centinaia ogni giorno e mettono in ginocchio interi Stati, creano la fame, mutilazioni, personalità violente e violentate, odio e rancore impastati e cementati dai proiettili, dalle bombe, dalle mine, dal fanatismo, dal fondamentalismo. Dal terrore.
Le armi hanno un solo scopo: distruggere. Qualsiasi arma. Ma il distruggere in sé non è male: dipende dallo scopo della distruzione. Se distruggo la vita di un animale perché ho fame e devo mangiarmelo, non è male. Se distruggo la vita di una persona perché ne ricavo denaro, invece è male. Sarà un ragionamento banale, ma chi vende armi non ragiona così: è bene focalizzarlo.
Anche perché il culmine di tutti i discorsi, scritti e pensieri intorno alla guerra è sempre il denaro. Ormai da strumento dell’economia è diventato il padrone: è l’economia uno strumento del denaro. Ed ha reso strumentale alla propria proliferazione anche l’animo umano di molti al mondo.
Siamo noi che usiamo il denaro o è il denaro che usa noi? E il denaro è in definitiva un costrutto mentale, perché il foglio con la filigrana dentro non ha alcun valore intrinseco: lo ha solo perché noi decidiamo di darglielo. Basta un numero stampato sopra con uno zero in più che la sua appetibilità sale vertiginosamente: ma come ci siamo ridotti? Schiavizzati da un zero o più zeri sul conto corrente? E il sole che sorge la mattina con tutta la sua meraviglia chi lo guarda? Pensate davvero che si può bramare al denaro e vivere la vita nella sua pienezza? Lo pensate davvero? Allora siete già schiavi, magari con uno yacht alla fonda a Porto Rotondo. Oppure senza yacht, che è anche peggio.

mercoledì 2 marzo 2011

Il corpo e Facebook

Nei primi anni novanta, ero un appassionato di giochi di ruolo. In particolare ce n’era uno (e mi sa che esiste ancora) che si chiamava “Cyberpunk 2020” ed era ambientato nella fantascienza  narrativa creata da William Gibson e Bruce Sterling. Solo dopo anni apparve la trilogia di “Matrix” su grande schermo.
Il tema più intrigante di quel gioco di ruolo era la realtà virtuale e i giocatori potevano impersonare hacker che si connettevano alla rete fisicamente, attraverso dei cavi abbracciati al loro sistema nervoso che sbucavano direttamente dal corpo. A ricordarlo oggi, sembra una novità da poco, ma all’epoca era molto figo.
Non mi sembra che ci siamo andati tanto lontani. Mi spiego.
Prendiamo Facebook: i contatti che puoi avere con le altre persone sono “virtuali”, cioè non sono “di persona”. Le conoscenze di altre persone avvengono attraverso la visione di foto, la lettura di descrizioni scritte, le conversazioni mancano del timbro della voce, delle posture e di tutto il corollario non verbale del nostro comunicare: a buon diritto quindi possiamo definire perciò questi scambi “virtuali”. Poi succede che due persone si danno appuntamento davvero, live. Ecco che entra in scena il corpo: come per gli hacker del cyberpunk, la fisicità è collegata alla virtualità, i cavi sono le nostre mani sulle tastiere, il mutuo scambio tra questo due mondi diventa la nostra vita. Ed è proprio qui l’aspetto secondo me più interessante, antropologicamente dirimente tra un’era pre-virtuale e post-virtuale: non c’è più il confine, non c’è un momento in cui ci si “stacca” dalla rete, dai social network, raggiungibili tramite dispositivi portatili sempre a portata di mano. I nostri “amici su Facebook” li abbiamo interiorizzati, potremmo, in molti casi di fruitori abituali, citare a memoria tutte le foto postate in rete e pure quali tags hanno su, chi ha detto cosa: “ti ho letto su Facebook”, “ci becchiamo su Facebook”.
In sé la cosa non è poi tanto male, l’importante è esserne consapevoli. Nel gioco di ruolo, tu che impersonavi un hacker sapevi perfettamente che stavi collegando il tuo corpo ad una macchina da comunicazione, da esplorazione, e ne conoscevi tutti i rischi: la fine più probabile che potesse fare un hacker in quel gioco era ritrovarsi col cervello “fritto” da un virus rintanato in qualche difesa di un database che aveva come effetto una manipolazione hardware del computer dell’hacker, in modo che la corrente sbucasse potente dai cavi su su fino al corpo. Nell’epoca dei social network la faccenda si fa più sottile, meno evidente: i cavi non ci sono, ma i rischi di friggersi sì. Quando si dice questo, subito in molti fanno la faccia schifata e snobbano la questione, liquidandola come la solita ramanzina sulla pericolosità dell’uso della tecnologia, di solito fatta da chi la tecnologia non sa nemmeno dove sta di casa. E a volte è vero. Ma varrebbe la pena comunque interrogarsi se sia la rete ad averci irretito oppure siamo noi i pescatori protagonisti del nostro navigare virtuale.
Perché nel primo caso non mangeremo mai pesci, riusciremmo con grossa difficoltà ad individuare il confine tra virtuale e reale e a varcarlo da una parte all’altra solo quando ne abbiamo voglia (e non  bisogno), quindi anche ad incontrare dal vivo persone senza avere un continuo rimando a come veniva “su Facebook”. Nel secondo caso, invece, i pesci ce li mangiamo, li digeriamo, li facciamo nostri e ne sfruttiamo le proprietà energetiche: il social network diventa allora uno strumento efficace per gestire i propri contatti, le proprie amicizie, per farne di nuove e non uno scudo dietro cui parare le proprie paure, le proprie difficoltà.
Il rischio è proprio quello di non denudare al sole ciò che siamo, di non confrontarci, di non scambiare le pelli. E nemmeno di rischiare mai di “perdere”, per certi versi… che poi è l’unico modo per “vincere”.