.......I pensieri trasformano la Terra.

sabato 30 aprile 2011

L’ANACRONISMO DEL PD ED IL FUTURO DI UNA EREDITA’ VIVA.

Matteo Renzi scalpita da tempo per togliere il piedistallo a quelle statue che raffigurano (o sono?) gli attuali dirigenti del suo partito. Per adesso si è fermato sul predellino di Firenze, da cui tirare frecciate più robuste e autorevoli verso i marmi di Carrara. La sua parlata strascicata incarna la voglia di rinnovamento di tanti sostenitori piddini, la necessità di facce nuove, di un nuovo capitolo nella storia del più grande (in senso numerico) partito della Sinistra italiana.
Tutto ciò è noto. Al momento, questo non ha scalfito di una virgola l’asset della nomenclatura della dirigenza PD. Ma cosa c’è dietro questa voglia di nuovo? Come mai sembra non bastare la fusione DS-Margherita, operata tra gli altri da chi poi è fuggito in fretta e furia (Rutelli) e da chi è stato affondato dalla sua stessa visione kennedyana, di fatto non approvata dai suoi elettori (Veltroni)?
Perché l’identità del PD torna ricorsivamente a tentare di incarnarsi in un leader che la costruisca, o meglio che ne assembli i pezzi per farla assomigliare, anche asetticamente, a qualcosa di vagamente umano piuttosto che ad un mostruoso, sebben più romantico, Frankenstein?
La risposta mi è suggerita da una delle consuetudini più catastrofiche della nostra società, nello specifico nell’ambito riguardante i rapporti di coppia. Avete presente due fidanzati tipo, da quattro o cinque anni insieme, da due conviventi e sull’orlo di un crisi di noia? Cosa fanno in molti casi per dare una soluzione a questo strascico snervante e ammorbante? Si sposano.
Ecco, i DS e la Margherita mi pare abbiano fatto lo stesso, innescando una nuova ulteriore faticosa indefessa marcia con il fango fino alla cintura, senza sapere neppure dove stavano andando.
In questo senso il PD non rappresenta proprio niente di nuovo, raffigurato su questo piano sociologico a forma di matrimonio. E proprio come ogni buon matrimonio all’italiana che si rispetti, non mancano gelosie, ceffoni, piccole punture per piccoli dolori vendicativi, sceneggiate, bugie, tradimenti, ecc.
Come in un reality show, questa quotidiana anacronistica commedia delle parti è sotto gli occhi di tutti. E, visto che non bastava, arrivano anche gli altri partiti della corazzata anti-premier per fare di tutto ciò una bella famiglia allargata, un’orgia di compromessi, faticosa quanto disomogenea e difficilmente vincente. Meno male che almeno una parte di questa armata Brancaleone sta tentando di creare il famigerato “Terzo Polo”, che sembra tanto il titolo di un romanzo di Ken Follett. E forse questa è la cosa davvero più innovativa degli ultimi dieci anni: scardinare il fasullo bipolarismo italiano, rompere ipocrisie e maschere elettorali ed avviare la costruzione di un soggetto di centro che non sembri un po’ destra, né un po’ sinistra. E, appunto, la Sinistra che fine farebbe? È certo che se il terzo polo decollasse, diversi piddini non avrebbero motivo di resistere ai richiami melliflui da sirena del buon Rutellone che da là tenderebbe mani, braccia e pinna.
Ma, come il divorzio per la coppia sopra descritta sarebbe un male foriero di due nuove vite potenzialmente migliori (non me ne voglia Giovanardi), così la Sinistra avrebbe davvero l’opportunità di darsi un’identità nuova, con buona pace di Renzi.
Un avvertimento però: la Sinistra non può lasciare le massicce e radicali eredità politiche vive di Enrico Berlinguer, prima e Tom Benetollo poi. Il nuovo e le nuove facce, le loro proposte, la loro agenda, i loro DNA politici devono nascere da lì: altrimenti è bene che si facciano da parte subito.
Nel frattempo, teniamo il lapis elettorale in una mano e con l’altra turiamoci il naso per non odorare questo groviglio di politicanti ficcatisi da soli nel cestino dell’organico per inseguire miopi e sterili convenienze personali o di rappresentanza.

martedì 26 aprile 2011

Trecento euro

Me ne stavo andando su un marciapiede in città, quando intercetto non volendo una chiacchera tra due signore: “.. e quindi mi ha detto che le analisi andavano bene, mi ha fatto un po’ di controlli e dopo tre quarti d’ora avevo già finito”. E l’altra: “Ah, meno male. Certo, ha fatto presto! Bisognerebbe che anch’io facessi un po’ di controlli… quanto ti prende a visita?”. Risposta:”Trecento euro”. L’altra:”Accipicchia! Mi sembra un po’troppo. Io non c’andrei… ma comunque fa bene, finché c’è chi glieli dà, fa bene!”.
Cammino per qualche metro per la mia strada, incurante di tutto ciò. Poi, d’improvviso, mi sorge un pensiero dallo stomaco, e mi fermo. No, non fa bene a chiedere trecento euro per una visita: quel dottore sbaglia, è bene dirselo. Non è eticamente giusto chiedere quella cifra per una visita: da un punto di vista opportunistico è perfettamente coerente, ma da quello etico no. E io da un dottore mi aspetto etica (e non solo da lui), perché sta lavorando per la mia salute. Da italiano, mi sono rotto le scatole di sentire giustificato qualunque comportamento egoistico come perfettamente tollerabile. Penso che sia solo un atteggiamento solidale fra italiani (e non) l’unica ancora di salvezza in questa catastrofe triviale che è la nostra società. Occorre esercitarsi a grattar via dalla nostra pelle quel marcio incrostato che è l’abitudine all’approfittarsi, al farsi gli affari propri in ogni modo e più lucrativamente possibile, alla mancanza di scrupoli. È un po’ come il pregare: è un esercizio all’introspezione, al dialogo spirituale, al concedersi del tempo per se stessi, per la propria crescita, per il proprio benessere, quello vero. Quanto quel dottore starebbe meglio, quel giorno che invece di intascare (magari esentasse) mille e duecento euro per quattro visite in mezza giornata, ne chiedesse cinquanta a visita (cioè molti) ritrovandosi davanti facce soddisfatte e grate, invece che contrite e tristi, perché forse un terzo del loro stipendio se lo sono “giocato” in nemmeno un’oretta?
Certamente questo dottore è solo un esempio: il suo comportamento è perfettamente rintracciabile in modalità, qualità e quantità diverse anche in molti di noi.
Un atteggiamento più leggero e meno attento al tornaconto in denari, sono convinto ci porterebbe ad un tornaconto in qualità di vita sicuramente più vantaggioso.
In lontananza, mentre scrivo queste ultime righe, le campane suonano a festa e mi sembra che approvino con un sorriso.

venerdì 15 aprile 2011

Amore

L’amore è un’attitudine curiosa, sia in senso passivo che in senso attivo. Mi spiego meglio: l’attitudine “amore” è curiosa perché si distingue da tutte le altre attitudini proprie dell’esistere per particolare incapacità razionale, abbondante interazione corporea a mezzo endorfinico, similarità con un certo effetto addolcente della marijuana. È un’attitudine curiosa anche perché vuole sempre indagare il bersaglio di Eros, non si accontenta mai di restare dov’è, nell’incertezza, nel limbo: o inferno o paradiso, quel che sia, sia. E già che ci siamo l’attitudine curiosa vuole sapere un po’ di più, vuole conoscere tutte le facce, gli specchi, gli inganni, gli entusiasmi. E in questo senso è un’attitudine curiosa attiva.
Ma questo anelare al raggiungimento dello stato di innamoramento dove ci porta? Le strade che imbocchiamo per questo scopo sono le più svariate dai risultati più diversi fra loro: si va dall’anima gemella alla più atroce non corrispondenza di intenti fra te e il potenziale amore della tua vita.
E in ogni caso, la maggior parte di noi, per discendenze culturali, quando ama l’altro, desidera anche l’altro, cioè l’altro diventa anche obiettivo di attaccamento, diventa un oggetto di desiderio.
Ma allora se un oggetto lo desidero, tento di entrarne in possesso. E il possesso è un esercizio di potere.
Accidenti! Ma perché sporcare la cosa più bella che ci resta a noi umani sciagurati con il possesso ed il potere? Ragioni culturali, appunto? Merita senz’altro cercare una risposta con un’introspezione individuale, profonda.
Riusciremo ad amare qualcuno senza la voglia di possederlo, di averne qualche pezzo in esclusiva?
Forse è un’utopia, ma un’utopia non è affatto irraggiungibile: è lontanissima ed infinita, ma il tenderci ci renderebbe, credo, gente migliore.

Cristalli di sole
mi spiegano le ali
imparo un amore
e mi scopro a volare.

(“Silenzio”, da “Appunti ai Naviganti – tra terra e mare” di Fabio Artigiani, Pascal Editrice, Siena, 2009)

mercoledì 13 aprile 2011

Possesso

“Le mie catene ti possiedono”, pensò Marco in un attimo di pura consapevolezza delle proprie debolezze. Adele, la sua fidanzata, lo guardava con quell’aria a metà, tipica sua, che la rendeva più indecifrabile di una Monna Lisa. Ma lui non accennava a dare risposta, non voleva rivelarle il suo pensiero.
Perché? Proviamo a cercare di scoprire perché Marco non vuole dire alla sua fidanzata Adele “le mie catene ti possiedono”. E cosa vuole dire questo pensiero?
Come reagirebbe Adele a questa frase? Beh, probabilmente lei, da buon spirito libero, avrebbe dapprima un senso di fastidio, poiché sentirsi posseduta da qualcuno non le piace proprio, figuriamoci dalle catene di qualcuno! E cosa sono queste catene pensate da Marco come una sorta di tentacoli che, dotati di vita propria, avvinghiano Adele in una stretta morbosa?
Marco avanzò verso di lei. La strinse forte come si fa con un pupazzo di pezza quando, da bambini, sentiamo il temporale da sotto le coperte. È come se le chiedesse di aiutarlo. Adele lo spinse via, sentendo che qualcosa di quell’abbraccio non le apparteneva, che non c’era una spontanea comunicazione affettiva ma qualcosa a lei sconosciuto.
Marco s’infilò i suoi occhiali da sole e sparì sgommando con il suo SUV.
Spinse l’acceleratore in maniera inconsueta, affondando il pedale nella sua ferita. La velocità ed il rischio gli facevano sentire come un riappropriarsi della vita, come una pasticca che ti culla, che ti fa sentire di esserci: se rischio la vita, allora vuol dire che vivo.
Più Adele gli sfuggiva al controllo, più lui la desiderava; sentiva quelle piccole ferite come un segno di forza di Adele, come una madre che ti schiaffeggia per rammentarti “tu sei mio!”.
Miracolosamente illeso (e con lui gli astanti momentanei contingenti alla sua fuga a tutta velocità), scese dall’auto, in mezzo ad una spiaggia e si piazzò davanti al mare.
Come un imperatore, respirò il sale che il suo orizzonte produceva e si sentì di nuovo il potente creatore del suo destino. Mentre lui guardava il sole a picco sul mare infrangersi e diluirsi in una macchia arancione come il fuoco, una lente oscurata lo proteggeva dai raggi UV, lo proteggeva da una visione troppo chiara di se stesso: quel pensiero avuto all’inizio aveva tutte le intenzioni di spingersi più in là, ma Marco, o la mente di Marco, non lo permise. Almeno per un po’.